E in alto c’era scritto: «quando il dito indica la luna, l’imbecille guarda il dito».
Già era giunto alla conclusione che in quella casa dovessero
esserci delle trappole sparse per capire quando uno non sapeva le cose, e
quella doveva essere una trappola. Aveva paura in quella casa, specialmente
quando andavano in cucina, e aveva più paura da quando aveva cominciato a
essere affascinato da quella libreria, dai segnalibri che avanzavano a velocità
eccessiva, dagli articoli messi in ordine dentro cartelline rosa. Voleva far
capire, insomma, che guardava la luna, cercava di farlo è almeno; eppure non
poteva fare a meno di guardare il dito, anche perché era disegnato alla
perfezione, tanto da sembrare in rilievo, e l’unghia, le rughe e i segni delle
articolazioni erano tratteggiati cosi bene da sembrare reali - e a dire il vero
erano la cosa migliore di quel poster, con quella luna sproporzionata e falsa,
e le montagne con un pino e un cammello in penombra, cosi improbabili, e
proprio li stava il trucco forse, che nonostante tutto bisognava guardare la
luna indicata dal dito senza guardare il dito. E con ogni probabilità era
quello che facevano in quella famiglia, e non si erano mai accorti della
perfezione di quel dito perché non lo avevano mai guardato, era questa la sensazione
che davano, e la cosa aveva a che fare secondo lui con quella libreria, con le
pagine sottolineate in vario modo, gli articoli tagliati alla perfezione da
forbici grandi e precise; aveva a che fare, probabilmente, con il fatto che in
quella casa non ci fosse la
Gazzetta dello Sport. Cosi pensava.
Non è che avesse accennato mai nulla a Francesca intorno a
quel dito, cosi come da un po’ aveva pure smesso di dire che quello che lei
chiamava Lenin era invece suo padre; non ne parlò mai nemmeno negli anni a
venire quando, nell’euforia dell’amore e durante le colazioni di primo mattino
nella Cucina deserta, le parole intime e scherzose diventavano tutt’uno e lei
si muoveva per casa con una maglia scura addosso e nient’altro, con le gambe e
le natiche pallide davanti ai suoi occhi stanchi della notte d’amore, e che
pure continuavano a guardare le porzioni nude del suo corpo ogni volta che lei
si girava, per convincere la sua mente che lo aveva posseduto realmente quel
corpo e tutto questo non era più frutto delle fantasie masturbatorie ma era li
davanti a lui e se voleva poteva toccarlo ancora. E se lo avesse toccato - se
l’avesse tirata a sé - le sarebbe piaciuto, come le piaceva da un po’ di tempo
ormai, non da subito; anzi, le prime volte erano state disastrose perché lui
entrava in una sorta di trance eccitata e le veniva addosso dopo pochi colpi furiosi,
tenendolo le natiche con le mani, serrande le mascelle, e trattenendo i gemiti
per un pudore che sarebbe riuscito a sconfiggere molto tempo dopo, quando lei
gli avrebbe spiegato che non era cosi che si faceva l’amore, che doveva avere
più rispetto, doveva pensare anche al suo piacere, l’orgasmo diceva, - non di
piacere parlava ma proprio di orgasmo, era precisa, anche lei doveva avere
l’orgasmo e bisognava aspettare, essere più calmi e lenti, aspettare lei e il
suo piacere e poi finire insieme. Questo gli spiegava e lui ascoltava, lei
conosceva l'orgasmo, lo aveva studiato e poi cercato con la perizia
caratteristica di quel tempo; sapeva che aveva ragione ma era stato più forte
di lui, soltanto che l’amava, dio se l’amava, e allora sapeva che doveva imparare,
e aveva voglia di farlo.
E allora pian piano imparò ad aspettarla.
E quando facevano l’amore, lei gli diceva «bravo».
E se diceva «bravo», forse aveva l'orgasmo. Lui non lo
sapeva. E neanche sapeva perché era bravo. Semplicemente, aveva imparato a resistere.
Aveva smesso di correre verso la fine come quando si masturbava; e aspettava.
Si concentrava e teneva dentro tutto, dava piccoli colpi lenti, e non le
metteva le mani dove più gli piaceva. Non le stringeva le natiche, per esempio,
e se voleva toccarle il culo lo faceva prima, prima di penetrarla insomma. Gli piaceva
il suo culo, ma non lo diceva. Aveva capito subito che per qualche motivo non
si poteva dire. Era offensivo. Dopo un po’, quando ebbe più coraggio disse: il
tuo sedere. Fino a quel momento aveva detto: la tua schiena; mi piace la tua
schiena, e aveva cercato dirlo in un modo tale da poter includere anche il
culo: per esempio, mentre lo diceva, la accarezzava dalle spalle fino giù alle
natiche. E sperava che capisse. Oltre, non si spingeva. E quando la spogliava
le stringeva le natiche ma poi saliva subito alla schiena, per non esagerare, e
quando poi la penetrava, smetteva. A quel punto, bisognava soltanto resistere.
Allora le toccava i capelli, le braccia, il seno, il collo,
le spalle, e se lei cominciava a muoversi di più, cercava di non toccarla e di
non guardarla, cercava quasi di pensare ad altro, pensava a resistere insomma,
e ce la faceva, resisteva ogni volta di più, e l’amore durava tanto, a lungo, e
quando finiva lei lo abbracciava e gli diceva «sei bravo». E lui pensava:
allora era vero che bisognava aspettare. Però poi la mattina parlava e le guardava
il culo mentre la maglia si alzava e si abbassava. e parlava e parlava, tanto
ormai si poteva dire tutto, e diceva tutto, ma pur continuando a guardare il
poster, e nel poster quel dito, e la luna, anche la luna è chiaro, e più del
dito per carità, pur non dovendo temere più nulla visto che aveva ormai a casa
un gran numero di libri in una libreria che non riusciva più nemmeno a contenerli
tutti, e segnalibri e cartelline rosa con articoli infilati dentro con criteri
rigidissimi e oscuri per il resto della famiglia, diceva tutto eppure mai
accennava alla questione del dito e della luna, mai diceva eh si, lo confesso,
io quel dito l'ho guardato, lo riconosco, sono stato un imbecille quando sono
entrato in questa casa, l’ho guardato e riguardato e ho pure pensato che era
bello, a modo suo era bello, e forse lo penso ancora chissà, ma tu l’hai mai
visto che è la cosa migliore di questo poster. No, non lo diceva. E ora,
intanto che facevano lo spuntino e Francesca raccontava ai genitori delle loro
imprese, stava bene attento a non guardarlo il poster, o a tenere lo sguardo
alto verso la luna. Sapeva che era un trucco, ma faceva finta di non saperlo;
faceva finta di guardare la luna, soltanto la luna, cosi esclusivamente da non
accorgersi, nemmeno che c’era un dito lì sotto, nonostante la scritta recitasse
«quando il dito indica la luna, l’imbecille guarda il dito», e quindi oltre
alla luna doveva esserci un dito, ma questo non voleva nemmeno saperlo.»
Estratto dal racconto "Quando il dito indica la luna"
Estratto dal racconto "Quando il dito indica la luna"
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