venerdì 28 dicembre 2012

FRANCESCO PICCOLO - STORIE DI PRIMOGENITI E FIGLI UNICI

In cucina era appeso un poster: piccolo, staccato con ogni evidenza dal paginone centrale di una rivista, considerati i segni delle spillette e la striscia della piegatura a centro pagina. Vi era raffigurato un paesaggio notturno visto in controluce o quasi, con delle montagne piccole per la lontananza, e una luna enorme e bianca, assolutamente sproporzionata al resto. In basso, al centro, spuntava in primo piano un dito, come quando qualcuno vuole fare uno scherzo a chi sta per scattare una foto, e mette la mano davanti all’obbiettivo. Lî, c’era un dito.
E in alto c’era scritto: «quando il dito indica la luna, l’imbecille guarda il dito».
Già era giunto alla conclusione che in quella casa dovessero esserci delle trappole sparse per capire quando uno non sapeva le cose, e quella doveva essere una trappola. Aveva paura in quella casa, specialmente quando andavano in cucina, e aveva più paura da quando aveva cominciato a essere affascinato da quella libreria, dai segnalibri che avanzavano a velocità eccessiva, dagli articoli messi in ordine dentro cartelline rosa. Voleva far capire, insomma, che guardava la luna, cercava di farlo è almeno; eppure non poteva fare a meno di guardare il dito, anche perché era disegnato alla perfezione, tanto da sembrare in rilievo, e l’unghia, le rughe e i segni delle articolazioni erano tratteggiati cosi bene da sembrare reali - e a dire il vero erano la cosa migliore di quel poster, con quella luna sproporzionata e falsa, e le montagne con un pino e un cammello in penombra, cosi improbabili, e proprio li stava il trucco forse, che nonostante tutto bisognava guardare la luna indicata dal dito senza guardare il dito. E con ogni probabilità era quello che facevano in quella famiglia, e non si erano mai accorti della perfezione di quel dito perché non lo avevano mai guardato, era questa la sensazione che davano, e la cosa aveva a che fare secondo lui con quella libreria, con le pagine sottolineate in vario modo, gli articoli tagliati alla perfezione da forbici grandi e precise; aveva a che fare, probabilmente, con il fatto che in quella casa non ci fosse la Gazzetta dello Sport. Cosi pensava.
Non è che avesse accennato mai nulla a Francesca intorno a quel dito, cosi come da un po’ aveva pure smesso di dire che quello che lei chiamava Lenin era invece suo padre; non ne parlò mai nemmeno negli anni a venire quando, nell’euforia dell’amore e durante le colazioni di primo mattino nella Cucina deserta, le parole intime e scherzose diventavano tutt’uno e lei si muoveva per casa con una maglia scura addosso e nient’altro, con le gambe e le natiche pallide davanti ai suoi occhi stanchi della notte d’amore, e che pure continuavano a guardare le porzioni nude del suo corpo ogni volta che lei si girava, per convincere la sua mente che lo aveva posseduto realmente quel corpo e tutto questo non era più frutto delle fantasie masturbatorie ma era li davanti a lui e se voleva poteva toccarlo ancora. E se lo avesse toccato - se l’avesse tirata a sé - le sarebbe piaciuto, come le piaceva da un po’ di tempo ormai, non da subito; anzi, le prime volte erano state disastrose perché lui entrava in una sorta di trance eccitata e le veniva addosso dopo pochi colpi furiosi, tenendolo le natiche con le mani, serrande le mascelle, e trattenendo i gemiti per un pudore che sarebbe riuscito a sconfiggere molto tempo dopo, quando lei gli avrebbe spiegato che non era cosi che si faceva l’amore, che doveva avere più rispetto, doveva pensare anche al suo piacere, l’orgasmo diceva, - non di piacere parlava ma proprio di orgasmo, era precisa, anche lei doveva avere l’orgasmo e bisognava aspettare, essere più calmi e lenti, aspettare lei e il suo piacere e poi finire insieme. Questo gli spiegava e lui ascoltava, lei conosceva l'orgasmo, lo aveva studiato e poi cercato con la perizia caratteristica di quel tempo; sapeva che aveva ragione ma era stato più forte di lui, soltanto che l’amava, dio se l’amava, e allora sapeva che doveva imparare, e aveva voglia di farlo.
E allora pian piano imparò ad aspettarla.
E quando facevano l’amore, lei gli diceva «bravo».
E se diceva «bravo», forse aveva l'orgasmo. Lui non lo sapeva. E neanche sapeva perché era bravo. Semplicemente, aveva imparato a resistere. Aveva smesso di correre verso la fine come quando si masturbava; e aspettava. Si concentrava e teneva dentro tutto, dava piccoli colpi lenti, e non le metteva le mani dove più gli piaceva. Non le stringeva le natiche, per esempio, e se voleva toccarle il culo lo faceva prima, prima di penetrarla insomma. Gli piaceva il suo culo, ma non lo diceva. Aveva capito subito che per qualche motivo non si poteva dire. Era offensivo. Dopo un po’, quando ebbe più coraggio disse: il tuo sedere. Fino a quel momento aveva detto: la tua schiena; mi piace la tua schiena, e aveva cercato dirlo in un modo tale da poter includere anche il culo: per esempio, mentre lo diceva, la accarezzava dalle spalle fino giù alle natiche. E sperava che capisse. Oltre, non si spingeva. E quando la spogliava le stringeva le natiche ma poi saliva subito alla schiena, per non esagerare, e quando poi la penetrava, smetteva. A quel punto, bisognava soltanto resistere.
Allora le toccava i capelli, le braccia, il seno, il collo, le spalle, e se lei cominciava a muoversi di più, cercava di non toccarla e di non guardarla, cercava quasi di pensare ad altro, pensava a resistere insomma, e ce la faceva, resisteva ogni volta di più, e l’amore durava tanto, a lungo, e quando finiva lei lo abbracciava e gli diceva «sei bravo». E lui pensava: allora era vero che bisognava aspettare. Però poi la mattina parlava e le guardava il culo mentre la maglia si alzava e si abbassava. e parlava e parlava, tanto ormai si poteva dire tutto, e diceva tutto, ma pur continuando a guardare il poster, e nel poster quel dito, e la luna, anche la luna è chiaro, e più del dito per carità, pur non dovendo temere più nulla visto che aveva ormai a casa un gran numero di libri in una libreria che non riusciva più nemmeno a contenerli tutti, e segnalibri e cartelline rosa con articoli infilati dentro con criteri rigidissimi e oscuri per il resto della famiglia, diceva tutto eppure mai accennava alla questione del dito e della luna, mai diceva eh si, lo confesso, io quel dito l'ho guardato, lo riconosco, sono stato un imbecille quando sono entrato in questa casa, l’ho guardato e riguardato e ho pure pensato che era bello, a modo suo era bello, e forse lo penso ancora chissà, ma tu l’hai mai visto che è la cosa migliore di questo poster. No, non lo diceva. E ora, intanto che facevano lo spuntino e Francesca raccontava ai genitori delle loro imprese, stava bene attento a non guardarlo il poster, o a tenere lo sguardo alto verso la luna. Sapeva che era un trucco, ma faceva finta di non saperlo; faceva finta di guardare la luna, soltanto la luna, cosi esclusivamente da non accorgersi, nemmeno che c’era un dito lì sotto, nonostante la scritta recitasse «quando il dito indica la luna, l’imbecille guarda il dito», e quindi oltre alla luna doveva esserci un dito, ma questo non voleva nemmeno saperlo.»

Estratto dal racconto "Quando il dito indica la luna"

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