Visualizzazione post con etichetta erri de luca. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta erri de luca. Mostra tutti i post

lunedì 17 settembre 2012

ERRI DE LUCA - TENTATIVI DI SCORAGGIAMENTO (A DARSI ALLA SCRITTURA)


Considera la tua pagina una sequenza di passi in montagna, dove è rischioso a morte il margine di errore. Le sillabe sono passi su piccoli appoggi, devi posarci il peso della frase, della voce. Usa il punto, la virgola, i due punti, le virgolette, accapo. Il 1800 ha usato molto il punto esclamativo, il 1900 poco, io l’ho abolito dalle mie righe, ma non è una regola, solo un’astinenza. Mi devono bastare le parole scritte a suscitare il punto esclamativo in chi le sta leggendo, deve mettercelo lui se lo sente, altrimenti mi sembra un’emozione indotta in modo artificiale, come la scritta “applausi” in una trasmissione.

mercoledì 18 aprile 2012

ERRI DE LUCA - TRE CAVALLI


Mi ricapita amore, perciò penso al primo, mentre ripiglio il treno.
A vent’anni tento qualche amore scarso. Per una ragazza mi piglia desiderio di andare insieme a un cinema, per un'altra di passeggiare in un'altra città. Le cerco, mi evitano, scrivo loro qualche lettera.
Mi mancano ma non smuovono amore.
Mi scordo di loro imparando a scalare montagne.
Poi incontro Dvora d'estate.
Ci sono creature assegnate che non riescono a incontrarsi mai e s'aggiustano ad amare un'altra persona per rammendare l'assenza. Sono sagge.
Io a vent'anni non conosco gli abbracci e decido di aspettare. Aspetto la creatura assegnata. Sto vigile, imparo a scorrere le facce di una folla in pochi istanti. Ci sono sistemi che insegnano la lettura veloce dei libri, io imparo a leggere una folla al volo.
La setaccio, la scarto tutta, neanche un grano di quelle facce resta nella retina. So sempre che lei non c'è, lei, la assegnata.
Non ho un ritratto in testa da far combaciare sopra una faccia, no, l'assegnazione non dipende dagli occhi, anche se non so da cosa. Aspetto d'incontrarla per saperne la figura.
Aspettare. Questo è il mio verbo a venti anni, un infinito asciutto che non sbrodola di ansia, non sbava speranza. Aspetto a vuoto.

lunedì 30 gennaio 2012

ERRI DE LUCA - IN ALTO A SINISTRA

Un buon infermiere veniva di giorno a pulire le piaghe e aggiustare i vasi con cui si irrigavano le sue vene. Di giorno parlava di libri.
“Conoscevano le mie pene, i bisogni, gli scontenti. In ognuno di loro c’era una frase, una lettera che era stata scritta solo per me. Sono stati la vita seconda, che insegna a correggere il passato, a dargli una presenza di spirito che allora non ebbe, a dargli un’altra possibilità. I libri insegnano ai ricordi, li fanno camminare. Li ho letti per intero, non ne ho lasciato nessuno a mezzo, per quanto fosse deludente o presuntuoso l’ho seguito fino all’ultima linea. Perché è stato bello per me girare la pagina letta e portare lo sguardo in alto a sinistra, dove la storia continuava. Ho girato il foglio sempre alla svelta per proseguire da quel primo rigo, in alto a sinistra. Questo mi mancherà del mondo, mi mancherà più di te, delle tue cure e delle notti di bridge con cui mi hai fatto uscire dal dolore delle ossa. I libri sono un carattere ereditario e credo di avertelo trasmesso. Non li ami come me, sei esigente, cerchi tra essi le pagine che restano incise nella memoria, infilzate come farfalle. Ma non dire che le altre, le dimenticate, sono da non leggere. Molto è portato via dal caso, quello che resta è appunto solo questo, un resto che non dimostra e non sostituisce niente di quello che si è perduto. Ami le pagine assolute, le necessarie, al riparo dai gusti. Ma i libri siamo noi, gente che si ammala, si sfilaccia, ingiallisce e viene dimenticata. Sono a immagine della nostra vita. Ama un poco anche i libri del tuo tempo, ama un poco i tuoi anni che sono quelli che passano e non quelli che ti restano.”

giovedì 12 gennaio 2012

ERRI DE LUCA - TU, MIO


“Tu ti chiami Catia?” le chiesi pensando che il suo fosse un nome slavo. “No, Caia” mi rispose brusca voltandosi da un’altra parte. Avevo azzardato una vicinanza ed ero stato respinto, cose che succedevano nel piccolo gruppo ingarbugliato di gerarchie minuscole. Ci restai male, non credevo che lei si potesse comportare come le altre. Perché no? Mi convincevo per difesa, è come le altre, una ragazza bella e ben allevata, si lascia avvicinare solo da quelli che le piacciono. Era un pensiero logico, ma non mi bastava. Avevo sbagliato io, che storia mi era venuta in mente che si chiamasse Caia? Cosa cercavo: d’indovinare, di scoprire qualcosa che gli altri avevano trascurato? Credo di sì, qui c’era il nervo di quella domanda: il nome. Partivo da lì, dall’accidente che accompagna a vita una persona più di un’ombra, perché almeno al buio l’ombra smette, il nome invece no. E vuole essere così parte di una persona da pretendere di spiegarla, di annunciarla: “io sono” e poi segue il nome, come se si possa essere un nome, anziché avere un nome. Mi accorsi più tardi che lei non diceva “io sono Caia”, ma “mi chiamo Caia”. Lei non era Caia, un nome, lei era una persona che si chiamava così. Forse voleva tenere a bada quel piccolo pezzo di identità, oppure non le piaceva. Ecco, già stavo indagando su di lei, in cerca di una sua verità. Ci si innamora così, cercando nella persona amata il punto a nessuno rivelato, che è dato in dono solo a chi scruta, ascolta con amore. Ci si innamora da vicino, ma non troppo, ci si innamora da un angolo acuto un poco in disparte in una stanza, presso una tavolata, seduto in un giardino dove gli altri ballano al ritmo di una musichetta insulsa e decisiva che fa da colla di pesce per una faccia che si appunta a spilli sul diaframma del petto. Da subito mi innamoravo a vuoto di Caia, di una ragazza più grande, dal dente spezzato in un sorriso a grandine, che aveva toccato la mano senza riguardo per la ferita e mi era stata intima per quello. M’innamoravo secondo un impulso opposto all’evidenza: che io ero di molto più adulto, che a me toccasse il compito di proteggerla dai pericoli dell’isola, custodendo il suo segreto che non conoscevo ancora ma che doveva esserci e io l’avrei saputo, io solo.

mercoledì 11 gennaio 2012

ERRI DE LUCA - IL GIORNO PRIMA DELLA FELICITÀ


“Ti ho aspettato fino a dimenticare cosa. Mi è rimasta un’attesa nei risvegli, saltando giù dal letto incontro al giorno. Apro la porta non per uscire ma per farlo entrare.”

[...]

Il coltello e gli uomini del Sud sono andati insieme.
Non mi permettevo di immaginare come usarlo in punto di pericolo. Avrei improvvisato. Una mossa violenta non va pensata prima. Una mossa violenta era buttarsi tra i piedi per afferrare il pallone con le mani. Non era violento il calcio sul naso, ma il tuffo tra le scarpe. Se ci pensavo prima, non lo facevo. Così sarà con il coltello, se capiterà un caso di salvezza, troverò la mossa di difesa.

martedì 10 gennaio 2012

ERRI DE LUCA - IL PESO DELLA FARFALLA


Sono scarsi i sensi in dotazione alla specie dell’uomo. Li migliora con il riassunto della intelligenza. Il cervello dell’uomo è ruminante, rimastica le informazioni dei sensi, le combina in probabilità. L’uomo così è capace di premeditare il tempo, progettarlo. È pure la sua dannazione, perché dà la certezza di morire.

[...]

Un uomo che non frequenta donne è un uomo senza. Non è un uomo e basta, nient’altro da aggiungere. È un uomo senza. Può dimenticarselo, ma quando si ritrova davanti, lo sa di nuovo.

[...]

La donna controllò col freno in faccia la soddisfazione per la breccia aperta e gli strinse la mano, per accordo. Non era certo il contatto con le dita e il palmo. Era la spudorata intimità mascherata da mossa di saluto. Toccare la mano di una donna, per un uomo senza, è un salto nel sangue. Non ci si dovrebbe toccare, donna e uomo, facendo finta che è tutt’altro. La mossa della donna, era stata lei a cercargli la mano, scavalcò il confine dei corpi, già scambio di amanti per lui.