Mi ricapita amore, perciò penso al primo, mentre ripiglio il treno.
A vent’anni tento qualche amore scarso. Per una ragazza mi
piglia desiderio di andare insieme a un cinema, per un'altra di passeggiare in
un'altra città. Le cerco, mi evitano, scrivo loro qualche lettera.
Mi mancano ma non smuovono amore.
Mi scordo di loro imparando a scalare montagne.
Poi incontro Dvora d'estate.
Ci sono creature assegnate che non riescono a incontrarsi
mai e s'aggiustano ad amare un'altra persona per rammendare l'assenza. Sono
sagge.
Io a vent'anni non conosco gli abbracci e decido di
aspettare. Aspetto la creatura assegnata. Sto vigile, imparo a scorrere le
facce di una folla in pochi istanti. Ci sono sistemi che insegnano la lettura
veloce dei libri, io imparo a leggere una folla al volo.
La setaccio, la scarto tutta, neanche un grano di quelle
facce resta nella retina. So sempre che lei non c'è, lei, la assegnata.
Non ho un ritratto in testa da far combaciare sopra una
faccia, no, l'assegnazione non dipende dagli occhi, anche se non so da cosa.
Aspetto d'incontrarla per saperne la figura.
Aspettare. Questo è il mio verbo a venti anni, un infinito
asciutto che non sbrodola di ansia, non sbava speranza. Aspetto a vuoto.
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