giovedì 12 gennaio 2012

ERRI DE LUCA - TU, MIO


“Tu ti chiami Catia?” le chiesi pensando che il suo fosse un nome slavo. “No, Caia” mi rispose brusca voltandosi da un’altra parte. Avevo azzardato una vicinanza ed ero stato respinto, cose che succedevano nel piccolo gruppo ingarbugliato di gerarchie minuscole. Ci restai male, non credevo che lei si potesse comportare come le altre. Perché no? Mi convincevo per difesa, è come le altre, una ragazza bella e ben allevata, si lascia avvicinare solo da quelli che le piacciono. Era un pensiero logico, ma non mi bastava. Avevo sbagliato io, che storia mi era venuta in mente che si chiamasse Caia? Cosa cercavo: d’indovinare, di scoprire qualcosa che gli altri avevano trascurato? Credo di sì, qui c’era il nervo di quella domanda: il nome. Partivo da lì, dall’accidente che accompagna a vita una persona più di un’ombra, perché almeno al buio l’ombra smette, il nome invece no. E vuole essere così parte di una persona da pretendere di spiegarla, di annunciarla: “io sono” e poi segue il nome, come se si possa essere un nome, anziché avere un nome. Mi accorsi più tardi che lei non diceva “io sono Caia”, ma “mi chiamo Caia”. Lei non era Caia, un nome, lei era una persona che si chiamava così. Forse voleva tenere a bada quel piccolo pezzo di identità, oppure non le piaceva. Ecco, già stavo indagando su di lei, in cerca di una sua verità. Ci si innamora così, cercando nella persona amata il punto a nessuno rivelato, che è dato in dono solo a chi scruta, ascolta con amore. Ci si innamora da vicino, ma non troppo, ci si innamora da un angolo acuto un poco in disparte in una stanza, presso una tavolata, seduto in un giardino dove gli altri ballano al ritmo di una musichetta insulsa e decisiva che fa da colla di pesce per una faccia che si appunta a spilli sul diaframma del petto. Da subito mi innamoravo a vuoto di Caia, di una ragazza più grande, dal dente spezzato in un sorriso a grandine, che aveva toccato la mano senza riguardo per la ferita e mi era stata intima per quello. M’innamoravo secondo un impulso opposto all’evidenza: che io ero di molto più adulto, che a me toccasse il compito di proteggerla dai pericoli dell’isola, custodendo il suo segreto che non conoscevo ancora ma che doveva esserci e io l’avrei saputo, io solo.

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