domenica 8 gennaio 2012

ALESSANDRO BARICCO - NOVECENTO


In questo era un genio, niente da dire. Sapeva ascoltare. E sapeva leggere. Non i libri, quelli son buoni tutti, sapeva leggere la gente. I segni che la gente si portava addosso: posti, rumori, odori, la loro terra, la loro storia... Tutta scritta addosso. Lui leggeva, e con cura infinita, catalogava, sistemava, ordinava... Ogni giorno aggiungeva un piccolo pezzo e quella immensa mappa del mondo, del mondo intero, da un capo all’altro, città enormi e angoli di bar, lunghi fiumi, pozzanghere, aerei, leoni, una mappa meravigliosa. Ci viaggiava sopra da dio, poi, mentre le dita gli scivolavano sui tasti, accarezzando le curve di un ragtime.

[...]

Per me , non ero nemmeno sicuro che lo fosse mai stato, infelice. Non era una di quelle persone di cui ti chiedi chissà se è felice quello. Lui era Novecento e basta. Non ti veniva da pensare che centrasse qualcosa con la felicità, o col dolore. Sembrava al di là di tutto, sembrava intoccabile. Lui e la sua musica: il resto, non contava.

[...]

A me ha sempre colpito quella faccenda dei quadri. Stanno su per anni, poi senza che accada nulla, ma nulla dico, fran, giù, cadono. Stanno lì attaccati al chiodo, nessuno gli fa niente, ma loro a un certo punto, fran, cadono giù, come sassi. Nel silenzio più assoluto, con tutto immobile intorno, non una mosca che vola, e loro, fran. Non c’è una ragione. Perché proprio in quell’istante? Non si sa. Fran. Cos’è che succede a un chiodo per farlo decidere che non ne può più? C’ha un’anima, anche lui, poveretto? Prende delle decisioni? Ne ha discusso a lungo col quadro, erano incerti sul da farsi, ne parlavano tutte le sere, da anni, poi hanno deciso una data, un’ora, un minuto, un istante, è quello, fran. O lo sapevano già dall’inizio, i due, era tutto già combinato, guarda io mollo tutto tra sette anni, per me va bene, okay allora intesi per il 23 maggio, okay, verso le sei, facciamo sei meno un quarto, d’accordo, allora buona notte, ‘notte. Sette anni dopo, 13 maggio, sei meno un quarto, fran. Non si capisce. È una di quelle cose che è meglio che non ci pensi, se no ci esci matto. Quando cade un quadro. Quando ti svegli, un mattino, e non la ami più. Quando apri il giornale e leggi è scoppiata la guerra. Quando vedi un treno e pensi io devo andarmene da qui. Quando ti guardi allo specchio e ti accorgi che sei vecchio. Quando, in mezzo all’oceano, Novecento alzò lo sguardo dal piatto e mi disse: “A New York, fra tre giorni, io scenderò da questa nave”.
Ci rimasi secco.
Fran.

[...]

Tutta quella città... non se ne vedeva la fine...
La fine, per cortesia, si potrebbe vedere la fine?
E il rumore
Su quella maledettissima scaletta... era molto bello, tutto... e io ero grande con quel cappotto,facevo il mio figurone, e non avevo dubbi, era garantito che sarei sceso, non c’era problema col mio cappello blu
Primo gradino, secondo gradino, terzo gradino
Primo gradino, secondo gradino, terzo gradino
Primo gradino, secondo
Non è quel che vidi che mi fermò è quel che non vidi
Puoi capirlo,fratello?, è quel che non vidi... lo cercai ma non c’era, in tutta quella sterminata città c’era tutto tranne
C’era tutto ma non c’era una fine. Quel che non vidi è dove finiva tutto quello. La fine del mondo
Ora tu pensa: un pianoforte. I tasti iniziano. I tasti finiscono. Tu sai che sono 88, su questo nessuno può fregarti. Non sono infiniti, loro. Tu, sei infinito, e dentro quei tasti, infinita è la musica che puoi fare. Loro sono 88. Tu sei infinito. Questo a me piace. Questo lo si può vivere. Ma se tu
Ma se io salgo su quella scaletta, e davanti a me
Ma se io salgo su quella scaletta, e davanti a me si srotola una tastiera di milioni di tasti, milioni e miliardi
Milioni e miliardi di tasti, che non finiscono mai e quella tastiera è infinita
Se quella tastiera è infinita, allora su quella tastiera non c’è musica che puoi suonare. Ti sei seduto su un seggiolino sbagliato: quello è il pianoforte su cui suona Dio

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