mercoledì 11 gennaio 2012

ERICH FROMM - I COSIDETTI SANI


Ogni società, grazie alle sue istituzioni culturali, al suo sistema scolastico, alle sue convinzioni religiose, ecc., cerca in ogni modo di formare un tipo di personalità che aspiri a fare ciò che deve, e che, oltre a voler fare quanto è necessario, desideri esercitare con zelo il ruolo che la società, per poter funzionare senza attriti, gli ha assegnato.

[...]

È proprio della natura dell’uomo e della sua condizione esistenziale l’esigenza di avere uno scopo nella vita: essere capaci di amare, capaci di usare la propria intelligenza e di disporre di quella obiettività e umiltà che permettono all’uomo un’esperienza non alienata della realtà esterna e interna. Questa relazione con il mondo è la maggior fonte di energia di cui disponiamo oltre a quella prodotta nel nostro corpo dai processi chimici. Niente stimola la creatività quanto l’amore, a condizione che sia sincero. E non c’è migliore fondamento per qualunque senso di sicurezza e per un sentimento dell’Io in grado di sostenere da solo l’identità personale, di essere a stretto contatto con la realtà. È questa relazione che ci consente di superare tutte le finzioni e di acquisire quell’umiltà e obiettività necessarie per guardare la realtà così com’è, trascurando tutto ciò che ci separa da essa.

[...]

In una condizione caratterizzata dalla mancanza di relazionalità, l’amore viene identificato con il sesso, oppure con la routine della buona convivenza o di un gradevole cameratismo, che però, in tali circostanze, è privo di tenerezza. Trovare manifestazioni di tenerezza nei film hollywoodiani è impresa quasi disperata, mentre ve ne sono ancora nel cinema francese e addirittura abbondano nei film di Charlie Chaplin. La tenerezza è più del sesso, ed è più di una piacevole convivenza. La tenerezza è espressione di una relazione piena di amore con un altro essere umano, e non solo nel senso dell’amore per un altro individuo, ma anche dell’amore per l’uomo un sé.
È perfettamente logico e naturale che in una cultura come la nostra l’esperienza della tenerezza sia ormai praticamente scomparsa. Temo addirittura che molti, pur provandola, se ne vergognino un po’, perché la tenerezza sembra poco decorosa. Hanno paura che manifestare tenerezza li faccia apparire troppo molli, infantili o ingenui, non adeguati all’immagine di uomini (donne) appassionati.

[...]

Sarebbe assurdo voler cancellare i progressi dell'era industriale. I vantaggi di quei progressi sono talmente evidenti - l'uomo è stato affrancato dal peso del lavoro fisico, e gli sono stati forniti i mezzi per vivere senza soffrire - che a nessuno verrebbe in mente di rinunciare alle conquiste degli ultimi quattrocento anni. Pur ammettendo che in effetti è molto difficile conciliare un sistema industriale con un sistema sociale basato sulla democrazia e sull'individualismo, mi domando se la soluzione di questo problema sia più difficile che produrre la bomba atomica. Pensiamo a tutti gli studi, al lavoro e agli sforzi che i fisici hanno investito nella produzione della bomba atomica; e pensiamo alla quasi totale mancanza di studi e di sforzi dedicati a creare una struttura sociale in cui il sistema industriale risulti compatibile con un sistema democratico a misura del singolo: solo se i nostri sociologi e politici e noi tutti avessimo tentato mille volte più di quanto abbiamo fatto, solo allora avremmo il diritto di parlare di difficoltà. Ma finora non ci abbiamo neppure provato, e dunque non vedo alcun motivo particolare per cui la soluzione di questo problema debba essere più difficile della soluzione dei problemi delle scienze naturali; a condizione, ovviamente, che riusciamo a riconoscerne l'importanza e che ci stia davvero a cuore.
Per quanto sia giusto distinguere tra il modo in cui è organizzata la società, la produzione e il lavoro, e il modo di essere delle persone, sono convinto che siano necessari determinati cambiamenti fondamentali [in ambito socioeconomico] perché l'uomo abbia la possibilità di condurre un'esistenza individuale più umana. E sono altresì convinto che, per questo, dobbiamo cominciare da noi stessi.
Chi parla di politica e di cambiamenti sociali senza prima domandarsi quale sia il proprio atteggiamento personale e quali aspetti di sé possano essere cambiati, in realtà non fa che parlare a vanvera. Ed è anche pericoloso, poiché l'oggetto a cui aspira e che cerca di creare non si fonda su una percezione interiore (che gli potrebbe indicare se la sua realizzazione sarà un fatto positivo o negativo).

[...]

Probabilmente la fede nell’assioma dell’innata passività dell'uomo trae origine proprio dalla natura del lavoro nella società industriale. Ciò appare chiaro se confrontiamo il lavoro industriale - dalla produzione tessile al telaio meccanico e al nastro trasportatore, fino alla catena di montaggio in una fabbrica di automobili - con il lavoro dell’artigiano medievale. Il modo di lavorare del fabbro o del carpentiere richiedeva una continua concentrazione e un costante interesse per il proprio lavoro. Quel metodo di lavoro era un processo di apprendimento senza soluzione di continuità, che iniziava con l’apprendistato e continuava per tutta la vita. Nel processo lavorativo l'artigiano accresceva la propria perizia, ovvero sviluppava sé stesso, i propri sensi, la conoscenza del materiale e delle tecniche; la capacità di vedere e sentire cresceva con l'andare del tempo, e lui stesso cresceva nel corso di questo processo attivo fondato sul rapporto con i materiali, gli utensili e altri fattori dell'ambiente circostante. Per questo il suo lavoro non era mai noioso, ma sempre interessante, come lo è ogni attività che richieda concentrazione, attenzione e perizia.
Oggi possiamo riscontrare tracce di quell’antico atteggiamento nel lavoro dell'artista, sia egli un pittore o un violoncellista; ma anche nel lavoro di un chirurgo, di un pescatore, di un artista del circo, e così via. (D'altronde, credo sia questo il motivo per cui oggi la gente rimane affascinata da qualunque lavoro la cui esecuzione richieda una comprovata abilità, che si tratti del violoncellista Pablo Casals o di un tessitore al telaio.) […] Un lavoro così qualificato non necessita per essere svolto di ricompense, minacce o punizioni estrinseche. Esso reca in sé l’intrinseca ricompensa dell'interesse, dell'esercizio di una particolare abilità, che nell'atto creativo stabilisce una relazione con il mondo e, innanzitutto, premia l'uomo facendolo crescere ed essere sé stesso.
Per comprendere la natura di questo tipo di lavoro, occorre però considerarlo all'interno del suo contesto sociale. All’artigiano medievale - come ancor oggi all’artigiano che opera nei paesi non industrializzati - non importava la massimizzazione del profitto o della produzione. Egli, voleva conservare il suo tradizionale standard di vita, e non era ossessionato dalla fame di merci tipica del consumatore moderno. Inoltre, i regolamenti delle corporazioni ponevano dei limiti al numero di apprendisti da formare e alla quantità di merci da produrre. Un tale artigiano si sarebbe stupito all'idea che il suo lavoro potesse risultare noioso, e che il denaro potesse essere un compenso per la sgradevolezza del lavoro, se non addirittura il maggiore incentivo a svolgerlo. […] Nella società industriale tutto è cambiato. Il lavoro ha un unico scopo: procurare profitto a coloro che possiedono le macchine e dar da mangiare a coloro che sono «assunti» per manovrarle. Oggi l'operaio è al servizio della macchina, e per questo gli basta solo una minima dose di abilità.

[...]

In un saggio pubblicato nel 1970 da «Psychology Today», Delgado calcola che mentre il 60 per cento circa del cervello è neutro nei confronti della percezione del piacere e del dolore, il 35 per cento è sensibile alla stimolazione piacevole e solo il 5 per cento a quella dolorosa. Ci sembra evidente quanto queste scoperte siano rilevanti per la valutazione della teoria freudiana del piacere. Freud, come altri riduzionisti, era convinto che non esistesse il piacere in sé ma solo varie gradazioni di dolore, e che il piacere fosse essenzialmente il passaggio da un livello di dolore più alto a uno più basso. Le ricerche dimostrano invece che il piacere ha una propria base neurofisiologica, e inoltre che l'organismo umano è «per sua natura» molto più preparato a percepire il piacere che il dolore.
Ovviamente il punto cruciale è che cosa si intende per «piacere». Si tratta principalmente di soddisfare determinati bisogni fisiologici come il sesso o la fame (e in tal caso, secondo lo schema freudiano, le sensazioni di piacere «più elevate» sarebbero sublimazioni di quelle più basse), oppure il piacere sta a indicare una generale condizione di benessere, al di là del soddisfacimento di desideri specifici? Le ricerche di Heath dimostrano che la stimolazione del setto può produrre eccitamento sessuale, e che a sua volta l'eccitamento sessuale compare nell'EEG in connessione col setto. Con le sue osservazioni, Heath ha fatto dei passi in avanti che sembrano trascendere lo schema edonistico nel suo complesso. Egli ha infatti scoperto che la stimolazione elettrica del setto può dar luogo alla percezione di un interesse attivo, di carattere intellettuale o di altro genere, che non è connesso con il soddisfacimento del desiderio sessuale o della fame. In un caso egli ha osservato come, nel corso del processo di soluzione di un interessante problema matematico, l’EEG segnalasse un'attività nel setto. Per questo Heath (comunicazione personale) è anche convinto che l'attivazione dell'area del piacere con buone probabilità dipenda da un processo per cui il soggetto sviluppa un interesse attivo nei confronti del mondo esterno. (Tradotto nella mia terminologia, si tratterebbe di un interesse produttivo [documentabile sul piano neurofisiologico] anziché di un interesse passivo, ricettivo.) In altre parole, queste scoperte stanno a indicare che l'interesse attivo dell'uomo per il mondo esterno è già radicato nella struttura del suo cervello, e dunque non ha bisogno di essere sviluppato mediante ricompense estrinseche. Se l'uomo è privo di tale interesse attivo, significa che è malato, che soffre di una malattia davvero grave che però Heath non considera una depressione psicotica.
L'importante conclusione che dobbiamo trarre da queste scoperte è dunque la seguente: un individuo incapace di andare in cerca del piacere e, a un livello più alto della personalità, di sviluppare un interesse attivo per le persone, le cose e le idee, è malato, e non, come vorrebbe far credere l'assioma, «normalmente» inerte.

Nessun commento:

Posta un commento